“Le parole non servono quando io cerco di parlare della mia pittura. È una presenza irriducibile che rifiuta di essere convertita in qualsiasi altra forma di espressione. È una presenza sia imminente che attiva […] Se io fossi maestro di una terminologia più esatta e meno minacciosa, se fossi un critico meravigliosamente brillante e illuminato, neppure allora sarei capace di stabilire verbalmente una connessione diretta con la mia pittura: le mie parole sarebbero note marginali sopra il vero dentro della tela.” (Alberto Burri).
Quanto espresso da Burri rappresenta un esempio di come possa verificarsi una perdita di significato quando andiamo a tradurre due tipi di linguaggio che non sono sostitutivi l’uno dell’altro, ma complementari. Per quanto possa essere abilmente trasformato, il linguaggio non verbale risulterà depotenziato nel significato se espresso a parole.
Le nuove forme di interazione che si sono imposte con l’avvento della tecnologia si avvalgono di mezzi “social” caratterizzati da un nuovo tipo di comunicazione, dove la parte “fisica” del linguaggio viene improvvisamente a mancare, lasciandoci orfani di una componente espressiva fondamentale.
Siamo sempre collegati, sempre potenzialmente in ricezione dell’altrui stato d’animo. Anche quando non prestiamo attenzione, il mondo dei social ci ascolta, ci conosce, registra le nostre emozioni sostituendosi ai nostri cari, alle nostre famiglie, agli amici. Il virtuale invade lo spazio che è sempre stato prerogativa del reale.
In questa nuova condizione di iperconnessione, ci rendiamo disponibili ad uno scambio mediato che, pur mutilato, di fatto ci mette in costante, relazione. Condividiamo “parti” di noi stessi con il mondo e contemporaneamente riceviamo, in maniera quasi automatizzata, parti altrui. Questo meccanismo si attua con modalità di cui non siamo completamente consapevoli. È il mezzo tecnologico che ci impone i suoi tempi e i suoi modi. Siamo immersi in una rete di connessioni virtuali, che non padroneggiamo fino in fondo, che non controlliamo, e che tuttavia producono impatti reali.
Questa trasposizione di un linguaggio verbale in qualcosa che verbale non è, ci restituisce una sintesi di un emotività amputata della sua componente fondamentale: il corpo, la fisicità. L’empatia, nella sua dimensione digitale, risulta essere incompleta e superficiale. L’Urbanbrain evidenzia questa perdita della dimensione fisica del linguaggio. La capacità umana di esprimersi è senza dubbio una delle caratteristiche che ha portato l’uomo ad evolversi. Le parole articolano concetti creando così nuovi scenari, componendo la realtà che enunciano, attraverso suoni che si caricano di senso e diventano fondamento delle relazioni. La tecnologia ha sostituito alla normale interazione fatta di prossimità, una modalità differente che trasferisce ogni nostra considerazione in modo immediato e simultaneo. Nell’Urbanbrain viene rappresentato un cervello attivo, vivo, che comunica il suo pensiero tramite “onde wireless”, un segno grafico che è diventato in pochi anni icona capace di creare un link immediato di connessione. Il corpo, l’odore, l’emozione, la gestualità, sono parti fondamentali della comunicazione che vengono così tralasciate, relegate a spettatori di uno spettacolo di cui erano attori principali.
Partendo da Burri, che raccontava la sua epoca attingendo dai materiali che lo circondavano per farne la base materica delle le sue tele, e proseguendo con il ricorso al reale tipico dei “neo dadaisti” e dei “nuovi realisti”, anche Urbansolid attinge dagli oggetti del quotidiano, recuperati della strada. In quest’opera, infatti, riprende il lavoro iniziato da Mimmo Rotella con i suoi “decollage”, spersonalizzandolo. A differenza dei nuovi realisti, Urbansolid, pur ricorrendo ad un’iconografia prelevata dalla strada o dai rotocalchi, non ne evidenzia, per proclamarne l’adesione, la contemporaneità, ma preleva oggetti del reale in base alle proprietà plastiche per costruire i fondi dei suoi quadri. I brandelli strappati dai cartelloni pubblicitari diventano un mero feticcio, materia colorata su cui innestare significati. Non vi è alcun richiamo ai soggetti pubblicitari o ai messaggi comunicati allo spettatore, ma se ne ricicla la materia.
Urbansolid utilizza materiali di recupero come base dell’opera: bancali e cartoni riciclati completano il supporto su cui viene installata la scultura in resina. Questo espediente simula il supporto tipico della Street Art, il muro, caratterizzato dal suo vissuto. La simulazione di uno sfondo, di un supporto metropolitano viene quindi realizzata attingendo dall’arte povera, attraverso una ricerca di materiali che hanno realmente un vissuto urbano al di fuori delle mura dello studio dell’artista. Negli Urbanbrain, quella che di solito è la relazione fra l’opera e il suo supporto urbano, il muro, viene invertita: nella Street Art infatti è l’opera che va a contaminare l’ambiente urbano preesistente; negli Urbanbrain il muro, con i suoi significati, diventa parte integrante dell’opera.
I titoli delle opere Urbanbrain evocano l’ambiente esterno, quasi a ricordare ai cervelli iperconnessi la loro matrice naturale, sociale, esterna. Come in un corto circuito, il nome dell’opera si insinua in questo processo di connessione virtuale, riportando la mente al suo contesto naturale. Un flash, una frazione di secondo in cui il nome dell’opera si palesa come un’apparizione, si inserisce evocando l’esterno: erba, cielo, pioggia viola, spiaggia, fuoco, quasi a risvegliarci dalle nostre connessioni, quasi a riportarci nel mondo reale.